Nell’era digitale, Internet ha assunto un ruolo centrale nella vita quotidiana, offrendo un accesso illimitato a informazioni, intrattenimento e connessioni sociali. Tuttavia, la sua natura pervasiva ha anche dato origine a teorie del complotto che ne mettono in discussione la veridicità e il futuro.
La “dead internet theory”: un’analisi approfondita
La “dead internet theory”, o teoria della morte di internet, non si riferisce a un evento improvviso e violento, bensì a un processo graduale di sostituzione. Secondo questa teoria, i contenuti generati dagli utenti, che un tempo rappresentavano l’anima pulsante del web, sarebbero stati progressivamente soppiantati da una valanga di materiale fasullo.
Le origini della teoria
La teoria colloca la “morte di internet” attorno al 2016. In quel periodo, infatti, il grande pubblico ha iniziato a prendere coscienza di diverse nuove realtà:
- L’ascesa delle “fabbriche di troll”: gruppi organizzati che utilizzavano bot e account falsi per influenzare l’opinione pubblica online, spesso attraverso la diffusione di disinformazione e propaganda.
- L’impatto delle fake news: la proliferazione di notizie false o fuorvianti, create e diffuse con l’obiettivo di ingannare o manipolare gli utenti.
- L’avvento dei deepfake: video manipolati con tecnologie di intelligenza artificiale per far sembrare reali eventi o dichiarazioni mai avvenute.
Le argomentazioni a sostegno della teoria
I sostenitori della “dead internet theory” adducono diverse prove a sostegno della loro tesi:
- Analisi del traffico web: alcuni studi dimostrano che la stragrande maggioranza del traffico online è generata da bot e non da utenti reali.
- Diffusione di fake news: la disinformazione si diffonde online con una velocità e un’ampiezza mai viste prima, grazie all’algoritmo dei social media e all’utilizzo di bot.
- Omogenizzazione dei contenuti: i contenuti che vediamo online tendono ad essere sempre più simili tra loro, a causa dell’utilizzo di algoritmi di raccomandazione che ci propongono solo ciò che già conosciamo e apprezziamo.
Le implicazioni della teoria
Se la “dead internet theory” fosse vera, le implicazioni per il nostro futuro online sarebbero profonde:
- Perdita di fiducia: la fiducia degli utenti in internet come fonte di informazioni affidabili potrebbe essere irrimediabilmente compromessa.
- Erosione della democrazia: la disinformazione e la propaganda potrebbero influenzare le elezioni e altri processi democratici.
- Creazione di “bolle di filtro”: gli utenti potrebbero essere rinchiusi in “bolle” online in cui vedono solo informazioni che confermano le loro convinzioni, limitando la loro esposizione a diverse opinioni.
Contenuti generati dall’AI: una minaccia per internet?
Sebbene la “dead internet theory” non ipotizzi un complotto ordito da oscuri poteri, l’ascesa incontrollata dei contenuti automatici generati dalle intelligenze artificiali, in particolare dai modelli linguistici avanzati come ChatGPT, rappresenta una nuova sfida per il futuro del web. Negli ultimi mesi, la diffusione di testi creati da AI ha assunto proporzioni preoccupanti.
Questi contenuti, spesso di bassa qualità e privi di originalità, rischiano di cannibalizzare il web, sommergendo i contenuti creati dagli esseri umani sotto una marea di materiale artificiale. Vere e proprie fabbriche di contenuti automatizzati, sfruttano la potenza di modelli come ChatGPT per produrre in tempi rapidissimi una grande quantità di articoli, spesso rielaborando testi e notizie già esistenti.
Siti web “spazzatura”:
Un esempio lampante sono siti come Worldtimestoday.com o WatchdogWire, dove un singolo “autore” può pubblicare centinaia di articoli al giorno grazie all’AI. Questi siti, definiti “spazzatura” da Newsguard, non solo inondano il web di contenuti artificiali, ma si rivelano anche delle vere e proprie macchine da soldi grazie alla pubblicità online.
La facilità con cui si producono contenuti AI incentiva la loro proliferazione, creando un circolo vizioso che disincentiva la creazione di contenuti originali da parte degli utenti. Questo fenomeno rischia di impoverire il web e di renderlo un luogo meno interessante e informativo.
Traduzioni automatiche: un diluvio di bassa qualità
La proliferazione di contenuti generati automaticamente non si limita ai testi originali. Uno studio del ricercatore Mehak Dhaliwal rivela che il 57,1% dei testi online sarebbero traduzioni, per lo più realizzate con sistemi automatici.
Un circolo vizioso di bassa qualità
L’obiettivo di questa pratica è di popolare il web con contenuti in lingue meno diffuse. Tuttavia, Dhaliwal evidenzia che “maggiore è il numero di lingue in cui una frase è stata tradotta, minore è la qualità della traduzione”. Le traduzioni automatiche, soprattutto in lingue meno diffuse, sono spesso poco accurate e, di traduzione in traduzione, la qualità peggiora progressivamente.
Inoltre, la maggior parte di queste traduzioni riguarda articoli di bassa qualità, creati con poca o nessuna competenza, come i classici “clickbait”. Questi contenuti vengono tradotti automaticamente in molte lingue per popolare siti che generano traffico e guadagnano con la pubblicità.
Il problema è che la bassa qualità di queste traduzioni in lingue meno diffuse crea un circolo vizioso. Se si volesse addestrare un modello linguistico in lingua Swahili, si dovrebbero utilizzare i testi in questa lingua presenti sul web. Ma se questi sono di scarsa qualità, il modello ne risulterebbe compromesso, aumentando il divario digitale tra le diverse aree del mondo.
Wikipedia, Amazon e Google: casi emblematici
Anche realtà come Wikipedia e Amazon non sono immuni a questo fenomeno. Su Wikipedia, la seconda lingua più diffusa dopo l’inglese è il cebuano, a causa di un bot che ha tradotto automaticamente una marea di brevi articoli di bassa qualità.
Su Amazon, invece, si è diffusa la pratica di pubblicare libri generati da sistemi di intelligenza artificiale, senza nemmeno specificarlo. L’azienda ha dovuto limitare la pubblicazione a tre libri al giorno per contrastare questo fenomeno.
Il caso più preoccupante è quello di Google, che si sta trasformando da motore di ricerca in “macchina delle risposte” grazie all’intelligenza artificiale generativa. Invece di indirizzare l’utente verso i siti web, Google fornisce direttamente le risposte, rielaborando testi già presenti online.
Un futuro incerto
Tutto ciò potrebbe portare a un web dominato da contenuti di bassa qualità generati da AI, con la conseguenza che la maggioranza degli utenti non cliccherebbe più sui link, limitandosi alle risposte del motore di ricerca.
Come sottolinea James Vincent su The Verge, questa situazione potrebbe rivelarsi un’opportunità: se Google fornisce pessimi risultati, gli utenti potrebbero essere più propensi a pagare per visitare fonti affidabili.
Se il web diventa un ricettacolo di pseudo-saggi, potremmo essere incentivati a cercare alternative come newsletter a pagamento o librerie online con una selezione accurata.
Una cosa è certa: il web per come lo conoscevamo, aperto a tutti e ricco di contenuti creati dagli utenti, sta morendo davanti ai nostri occhi, ucciso dalle intelligenze artificiali. Esattamente come la “dead internet theory” aveva previsto.